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Correnti oceaniche e clima: nessun collasso imminente, ma la stabilità è a rischio

Le grandi correnti atlantiche preoccupano la comunità scientifica, anche se non sembrano sul punto di cedere da un momento all’altro.

Quando si parla di oceani, spesso si immagina una distesa d’acqua statica e placida. In realtà, sotto la superficie c’è un sistema in continuo movimento che regola, senza farsi notare troppo, il clima dell’intero pianeta. Una delle componenti più importanti di questo meccanismo è l’Amoc – la Atlantic Meridional Overturning Circulation – una sorta di nastro trasportatore oceanico che spinge l’acqua calda e salata verso nord, dove si raffredda e sprofonda, tornando poi verso sud.

È un ciclo vitale per il bilanciamento termico del pianeta. Negli ultimi anni, il cambiamento climatico sta però mettendo questo equilibrio sotto pressione. L’aumento delle temperature e il massiccio scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia stanno immettendo grandi quantità di acqua dolce nell’Atlantico del Nord.

Questo “diluente naturale” rende l’acqua meno densa, ostacolando quel processo di sprofondamento che è fondamentale per mantenere attiva la circolazione. Alcuni studi passati avevano suggerito che il collasso del sistema potesse avvenire addirittura entro questo secolo.

Il problema, però, è che i dati a disposizione non sono ancora sufficienti. Abbiamo solo una ventina d’anni di misurazioni dirette, e il resto si basa su ricostruzioni storiche che portano con sé molte incertezze. I modelli usati in passato, tra l’altro, sembravano essere troppo “ottimisti” rispetto alla reale fragilità dell’Amoc. Per questo, capire se – e quando – potrebbe davvero collassare è tuttora complicato.

I nuovi modelli danno una boccata d’ossigeno, ma il pericolo resta

L’ultimo studio, pubblicato su Nature, ha cercato di andare più a fondo utilizzando 34 modelli climatici avanzati, inserendo scenari estremi per rendere più visibili le reazioni dell’Amoc. In uno di questi, i livelli di CO₂ sono stati moltiplicati per quattro; in un altro, l’oceano veniva inondato da un’enorme quantità di acqua dolce. Eppure, anche in condizioni così estreme, nessuno dei modelli ha previsto un crollo completo delle correnti prima del 2100.

A evitare lo scenario peggiore sono stati soprattutto i venti persistenti dell’Oceano del Sud, che continuano a far risalire l’acqua profonda in superficie, alimentando l’intero sistema. Un’altra scoperta, in parte inattesa, riguarda la formazione di nuove zone di sprofondamento nel Pacifico e nell’Oceano Indiano. Anche se deboli, queste aree contribuiscono a sostenere una parte del flusso, bilanciando in parte l’indebolimento atlantico. Detto questo, il rallentamento è comunque significativo. In alcune simulazioni, la velocità dell’Amoc si riduceva fino all’80%. E nonostante non si arrivi a un blocco totale, un indebolimento di questo tipo è tutt’altro che trascurabile. Gli scienziati parlano infatti di profondi cambiamenti climatici regionali e globali anche senza un vero e proprio punto di non ritorno.

Circolazione ocenanica nell’Atlantico (Marina Locritani – INGVambiente foto) – www.energycue.it

Anche senza un crollo totale, gli effetti potrebbero essere devastanti

Secondo il dott. Aixue Hu del Global Climate Dynamics Lab in Colorado, basta una riduzione del 50% della forza della circolazione per alterare in modo drastico il trasporto di calore a livello planetario. Questo significherebbe stagioni monsoniche in tilt in India e Africa occidentale, aumento della forza degli uragani, riscaldamento più intenso in alcune aree tropicali e rapido innalzamento del livello del mare sulla costa orientale del Nord America.

Anche se lo studio ha definito il collasso come una totale interruzione della circolazione nel Nord Atlantico – cosa che secondo loro non accadrà in questo secolo – altri ricercatori continuano a considerare plausibile un cedimento oltre il 2100. Il professor Stefan Rahmstorf, esperto dell’Amoc presso l’Istituto di Potsdam, ha spiegato che il vero rischio non cambia: il processo di indebolimento potrebbe comunque innescare impatti simili a quelli di un collasso, anche senza superare un “tipping point” netto. La strada per capire con precisione cosa ci aspetta è ancora lunga. Servono modelli con una risoluzione più alta e più osservazioni dirette in aree oceaniche poco studiate, come l’Oceano del Sud e il Pacifico. Nel frattempo, l’unica cosa chiara è che non possiamo permetterci di restare fermi: le emissioni vanno tagliate ora, perché il tempo per prevenire i peggiori scenari sta finendo.

Furio Lucchesi

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