Illustrazione di una montagna in erosione (Canva FOTO) - energycue.it
Molte montagne vengono erose continuamente, eppure la mano dell’uomo ha accelerato questo processo. E lo si nota sulle Alpi.
Ci si immagina spesso che siano solo i ghiacciai o la pioggia battente a scavare le montagne. Ma secondo uno studio recentissimo, pubblicato su PNAS e condotto da un gruppo di ricercatori guidato dal CNRS francese, è stato l’uomo, con pascoli e agricoltura, a dare il colpo di grazia ai suoli alpini. E lo fa da ben 3.800 anni, erodendo il terreno a una velocità da tre a dieci volte superiore rispetto ai tempi geologici naturali.
Tutto è partito dai monti sopra il Lago del Bourget, nel cuore delle Alpi francesi. In cima, sono stati i primi pastori, probabilmente, a cominciare a smuovere le zolle per far passare le greggi, togliendo alberi e radici che fin lì avevano tenuto tutto insieme. Poi, col tempo, anche le zone più basse si sono trasformate: l’arrivo dell’aratro e l’estendersi dell’agricoltura hanno contribuito a spingere via strati e strati di suolo.
Ma non è successo tutto insieme, ovviamente. Anzi, una delle cose più interessanti emerse è proprio che l’impatto umano sull’erosione del suolo montano non è stato affatto sincrono. In alcune regioni è cominciato presto, altrove molto dopo. Questo ci dice qualcosa di importante: la cosiddetta “Antropocene pedologica”, ovvero l’epoca in cui l’uomo ha iniziato a modificare profondamente la formazione del suolo, non ha una data unica ma segue percorsi differenti.
Nel frattempo, ci si chiede: e oggi? Che ne è del suolo che resta? Gli autori dello studio, analizzando i sedimenti del Lago del Bourget e confrontandoli con le rocce attuali, mettono in guardia: i terreni alpini hanno perso gran parte della loro capacità di rigenerarsi.
I ricercatori hanno utilizzato un indicatore piuttosto insolito: gli isotopi del litio presenti nei sedimenti lacustri, un metodo che permette di ricostruire come si è evoluto il suolo nel tempo. Analizzando i carotaggi del fondo del Lago del Bourget, è stato possibile ripercorrere quasi 10.000 anni di storia pedologica delle Alpi. Il litio, nelle sue due forme principali (⁶Li e ⁷Li), si comporta in modo diverso durante i processi di formazione del suolo: uno si lega ai minerali secondari come le argille, l’altro resta disciolto. Questo squilibrio lascia tracce, vere e proprie firme geochimiche. I risultati mostrano che fino a circa 3.800 anni fa, il suolo si stava formando lentamente ma stabilmente, con picchi di sviluppo soprattutto in epoca post-glaciale. Poi però qualcosa cambia: compaiono segni di forte erosione, in tre momenti distinti (tra 3.800–3.000, 2.800–1.600 e da 1.600 anni fa fino a oggi).
L’impatto umano (pastorizia, agricoltura, deforestazione) ha rotto l’equilibrio tra formazione e distruzione del suolo. E il ritmo di consumo è diventato insostenibile: i suoli si sono erosi 4–10 volte più in fretta di quanto potessero riformarsi. Il dato più sorprendente? Il processo è avvenuto a quote diverse in tempi diversi. In alto, sopra i 2.000 metri, il primo “strappo” risale all’Età del Ferro, quando si diffuse il pascolo intensivo. Più tardi, sono toccati anche i versanti medi e bassi, dove la terra era già più matura e fertile. E lì, l’aratro ha fatto il resto. Secondo gli studiosi, questo andamento “sfalsato” lungo le altitudini ha creato una decostruzione progressiva del paesaggio pedologico alpino, fino a riportare i suoli, in certi punti, a condizioni simili a quelle di 10.000 anni fa
Lo studio suggerisce che, per capire davvero come proteggere i suoli montani, serve tenere conto sia del clima che dell’impatto umano. Non è solo questione di piogge o temperature, ma anche e soprattutto di come si gestisce il territorio. In alcune zone, ad esempio, le pratiche agropastorali tradizionali hanno modellato il paesaggio, ma oggi rischiano di eroderlo irreversibilmente. E non si tratta solo delle Alpi: molte aree montane nel mondo vivono dinamiche simili, anche se con “calendari” diversi.
Ciò che resta oggi è un sistema fragile, dove i segni dell’uomo si sovrappongono a quelli del tempo geologico. Gli autori parlano senza mezzi termini di un vero e proprio “Antropocene del suolo”, una fase in cui la nostra impronta ha superato, per intensità e durata, quella dei processi naturali. Estendere questo tipo di ricerche ad altri contesti montani diventa cruciale, per comprendere come costruire modelli agricoli più sostenibili e, chissà, invertire la tendenza.
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