Illustrazione di uno scioglimento in corso (Canva FOTO) - energycue.it
Tamponare gli effetti dei cambiamenti climatici è ormai un dovere, eppure non tutte le soluzioni sembrano essere applicabili.
C’è chi immagina enormi barriere sottomarine, chi pensa a nuvole di aerosol nella stratosfera o a miliardi di microsfere di vetro sparse sull’oceano. Tutto per rallentare la fusione dei ghiacci polari e contenere l’innalzamento dei mari. Sulla carta può sembrare una via rapida per guadagnare tempo contro il riscaldamento globale. Ma la realtà, almeno per ora, racconta una storia diversa. Secondo una ricerca guidata da Martin Siegert dell’Università di Exeter e pubblicata su Frontiers in Science, nessuna delle cinque strategie più discusse supera un’analisi approfondita di fattibilità, impatto ambientale e costi.
Il problema di fondo è che il clima ai poli si sta scaldando più in fretta che altrove, spingendo alcuni ingegneri a proporre soluzioni “da laboratorio” per congelare il danno. Tuttavia, queste tecniche rischiano di diventare una distrazione rispetto all’unica contromossa che funziona davvero: ridurre subito e drasticamente le emissioni di gas serra.
Gli autori hanno messo sotto la lente ogni proposta, valutandone sei aspetti chiave: efficacia reale, scala temporale, costi, possibilità di accordi internazionali di lungo periodo, rischi ecologici e pericolo di false speranze. Il verdetto è netto: progetti di questo tipo non solo sono irrealistici ma potrebbero persino danneggiare gli ecosistemi polari, già estremamente fragili. E non basta più perfezionare i modelli per aggirare ostacoli così profondi, spiegano i ricercatori.
Questa conclusione non chiude il dibattito globale sulla geoingegneria, ma mette in chiaro un punto cruciale: il tempo e le risorse spesi in ipotesi poco praticabili potrebbero essere impiegati meglio nella riduzione diretta delle emissioni. Con oceani che si scaldano a un ritmo triplo rispetto al passato e calotte glaciali in accelerata fusione, l’urgenza non lascia molto margine a esperimenti miliardari senza garanzie.
Tra i piani più discussi, quello delle “tende sottomarine” spicca per audacia. L’idea è di erigere immense barriere ancorate a un chilometro di profondità per deviare le correnti calde che sciolgono le piattaforme glaciali, come il Thwaites in Antartide. Ma non è detto che l’acqua calda scompaia: potrebbe semplicemente spostarsi e minacciare altri settori di ghiaccio. E la logistica è quasi proibitiva: acque infide, iceberg vaganti e condizioni estreme rendono già complesso il lavoro delle navi di ricerca, così come la costruzione di barriere lunghe decine di chilometri.
Un secondo progetto prevede di perforare lastre di ghiaccio spesse chilometri per pompare via l’acqua che lubrifica la base dei ghiacciai terrestri, rallentandone la corsa verso il mare. Ma servirebbe una gran quantità di fori e di energia inimmaginabili. Anche con mappe perfette delle cavità, il problema di scala e di alimentazione energetica resterebbe insormontabile.
Le altre tre opzioni non reggono meglio. Spargere ogni anno 360 megatonnellate di microsfere di vetro sull’Artico per riflettere la luce solare potrebbe, paradossalmente, scaldare l’oceano e ha già mostrato tossicità in laboratorio. L’iniezione di aerosol stratosferici, come anidride solforosa, richiederebbe dosi enormi per un effetto minimo nelle lunghe notti polari e rischierebbe di danneggiare l’ozono, alterando climi lontani e generando dispute internazionali.
Infine, la fertilizzazione dell’Oceano Meridionale con nutrienti per stimolare il fitoplancton, che dovrebbe intrappolare carbonio nei sedimenti, ha dato risultati scarsi in precedenti esperimenti, con un solo caso di maggiore deposito di carbonio. Peggio, potrebbe aumentare la perdita di ossigeno negli oceani e liberare metano o protossido di azoto, gas serra potentissimi. Per tutte queste strategie i costi iniziali si misurerebbero in centinaia di miliardi di dollari, con decenni di manutenzione, mentre le regole internazionali di tutela ambientale polare renderebbero quasi impossibile ottenere permessi su larga scala.
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